GEM: gli Antichi Egizi hanno vinto la loro sfida millenaria
Inaugurato il GEM. Finalmente aperto il Grand Egyptian Museum
Sotto le piramidi, che da 4.600 anni tengono d’occhio l’orizzonte, la notte del 1° novembre 2025, il deserto si è acceso di un bagliore diverso. Non era la solita luna sul plateau di Giza: era il Grand Egyptian Museum, il GEM, che si svegliava, finalmente, dopo vent’anni di cantieri, miliardi spesi e un’attesa che aveva stancato anche le pietre.
Accanto alle piramidi, il GEM si erge come una nuova geometria del tempo: il più grande museo archeologico al mondo dedicato a una singola civiltà.
Ho visto il presidente Abdel Fattah El-Sisi infilare l’ultimo mattoncino di alabastro egiziano inciso con la sola parola “Egypt” nel muro esterno. Alabastro usato fin dall’antichità per vasi e sarcofagi, scelto per onorare il patrimonio egizio, proprio come molte delle sculture e dei rivestimenti del museo stesso.
Un gesto semplice, quasi privato. Poi il clic di un interruttore invisibile e l’intero complesso si è illuminato dall’interno, come se qualcuno avesse acceso una torcia dentro un sarcofago millenario. In quel secondo preciso ho capito: non stavamo inaugurando un museo. Stavamo chiudendo un cerchio iniziato quando un faraone qualsiasi decise che la sua voce doveva arrivare fino a noi.


Migliaia di droni hanno preso il volo. Non erano giocattoli: erano pennelli di luce che dipingevano nel cielo la maschera d’oro di Tutankhamon, il carro da guerra, la barca solare di Cheope. Ogni figura restava sospesa per un istante, poi si dissolveva lasciando il posto alla successiva, come se il cielo stesso sfogliasse un rotolo di papiro lungo cinquemila anni. Sotto, l’orchestra, diretta da Hesham Nazih, alternava oud e archi moderni e le note arrivavano fisiche, vibravano sul petto come il battito di un tamburo sepolto.
E mentre Giza si specchiava nei LED, da Tokyo a Parigi, da Rio a Sydney, altre orchestre suonavano la stessa melodia sui monumenti più famosi del pianeta: un ponte tra millenni, trasmesso in diretta, che ricordava al mondo quanto sia universale il fascino di questa civiltà.
Portatori di lanterne hanno attraversato il cortile in fila indiana, senza una parola. Le loro ombre correvano veloci sulle pareti, allungandosi fino a sfiorare l’obelisco di Ramses II – quello antico, rialzato all’ingresso esterno del museo come sentinella di pietra. Sembravano sacerdoti di un tempio che non esiste più, eppure erano lì, vivi, a ricordarci che certi gesti non hanno bisogno di traduzione.
Dentro, la scalinata monumentale accoglie i visitatori come un invito a salire verso la conoscenza. Sei piani che ti proiettano le piramidi davanti agli occhi, fin dalla prima finestra. Non è un caso. Chi ha progettato il GEM ha voluto che ogni visitatore sentisse subito il peso di quello sguardo millenario.
Ramses II, 83 tonnellate di granito rosa, ti fissa dall’atrio come se ti stesse chiedendo: “Allora, sei venuto a vedere se ci siamo riusciti?”
E la risposta è nelle vetrine: una collezione stimata in oltre 100.000 reperti, di cui decine di migliaia mai esposti fino ad oggi. Più di 5.000 oggetti di Tutankhamon finalmente riuniti. Sandali di cuoio che hanno camminato sul limo del Nilo 3.350 anni fa. Una barca lunga 42 metri che ha navigato solo nell’aldilà e ora galleggia sospesa in una teca di cristallo.

Ogni oggetto è presentato non come reliquia, ma come frammento di un pensiero, di una visione del mondo dove vita e morte erano parte di un unico disegno cosmico. Le luci soffuse delle gallerie non nascondono, rivelano. Ogni angolo è una soglia, ogni reperto una voce.
Mi sono fermato davanti a un piccolo scarabeo di faience verde, simbolo di trasformazione e rinascita. Un oggetto qualunque, uno dei milioni prodotti nell’antico Egitto. Eppure, qualcuno lo ha stretto mentre pregava perché il suo ka continuasse a esistere. Quel qualcuno non c’è più da trentacinque secoli, ma io sto stringendo lo stesso scarabeo attraverso il vetro.
Camminare tra queste sale è come attraversare un tempo che non si misura in anni, ma in significati. Ho percepito la presenza del tempo – non nel senso di fermarlo, ma di renderlo vivo, pulsante: il passato che cammina al nostro fianco.

Partecipare alla cerimonia non è stato assistere a un taglio di nastro. È stato assistere a un rito moderno che onora riti antichi. Le mura del GEM parlavano, non ad alta voce, ma con l’eloquenza della pietra scolpita, della luce che danza sulle reliquie, dell’ombra che scivola tra colonne e busti.
Il deserto attorno, le piramidi che vigilano da millenni, il museo che apre le sue ali larghe: tutto congiunge i punti di un disegno infinito. Non era sfarzo fine a sé stesso. Era consapevolezza di cosa significa “restare”.
Gli antichi egizi hanno costruito tombe e teorie sul dopo-vita come materia viva e concreta. Hanno scolpito il loro nome su ogni pietra possibile, hanno imbalsamato corpi, hanno nascosto barche nella sabbia perché servissero nell’aldilà. Hanno fatto tutto questo per un motivo solo: non sparire.
E guardandoli ora, illuminati da luci LED che loro non potevano nemmeno immaginare, viene da sorridere. Avete vinto voi, ragazzi. Avete proprio vinto!

In questo dialogo tra pietra e luce, tra passato e presente, si percepisce chiaramente che hanno raggiunto il loro intento primario: essere ricordati. Perché ciò che siamo stati – i faraoni, i templi, i riti, le paure, le speranze – tutto rimane.
Il GEM non è un deposito di cose vecchie. È la prova che un popolo può progettare la propria sopravvivenza e centrare l’obiettivo con millenni di anticipo. È un ponte di granito e vetro teso tra il 2700 a.C. e il 2025 d.C. e noi ci stiamo camminando sopra.
Da oggi il GEM è aperto. Nel momento in cui esci e ti giri a guardare le piramidi dalla terrazza, capisci che non sei più solo un visitatore. Sei diventato l’ultimo anello di una catena che qualcuno ha iniziato a forgiare quando la ruota non era ancora stata inventata.
Gli antichi egizi avevano un’espressione: “vivere milioni di anni”. Non era soltanto un auspicio, ma una promessa scolpita nella pietra e tramandata nei testi sacri. E oggi, mentre camminiamo tra le sale del GEM, quella promessa si rinnova: l’immortalità non è più un mito, ma una presenza viva.

Cosa vedere al GEM (e perché non lo dimenticherai mai)
- La collezione completa di Tutankhamon, esposta per la prima volta tutta insieme in 52 vetrine consecutive in oltre 5.000 pezzi, dalle maschere d’oro ai carri da guerra
- La barca solare di Cheope, lunga 42 metri e risalente a oltre 4.500 anni fa, sospesa a mezz’aria come se stesse ancora navigando verso l’aldilà
- Il Grand Atrium, dominato dal colosso di Ramses II (11 metri), la prima cosa che ti guarda quando entri, sotto la maestosa Scalinata Monumentale che si innalza per 6 piani
- Le sale delle “Credenze”, dove scoprirai che per gli antichi egizi la morte era solo un trasloco verso un’altra vita
- La vista dalle grandi vetrate: Giza è lì, a due chilometri, e ti ricorda dove tutto ha avuto inizio
- Innovazione e Conservazione: un’esperienza museale all’avanguardia con schermi interattivi, proiezioni olografiche e il Centro di Conservazione (visibile), che ti mostra “dietro le quinte” il restauro dei reperti
- La facciata di alabastro: Il gigantesco muro frontale in lastre traslucide di alabastro egiziano che si illumina di notte, fungendo da immenso velo che filtra la luce naturale e conferisce al museo un bagliore etereo
Info pratiche per visitare il GEM
- Apertura al pubblico: dal 4 novembre 2025
- Orari: 9:00 – 17:00 (ultimo ingresso 16:00)
- Biglietti: 150 EGP per residenti egiziani e studenti / 1.200 EGP per visitatori stranieri
- Prenotazione obbligatoria su questo link
- Apertura parziale (48 sale) fino a marzo 2026, poi completa con tutte le 96 gallerie espositive
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Fonte video e foto: Canale YouTube ufficiale della Presidenza della Repubblica Araba d’Egitto
Video ufficiale della Presidenza della Repubblica Araba d’Egitto – “Inaugurazione del Grand Egyptian Museum – 1° novembre 2025” – Canale YouTube: رئاسة جمهورية مصر العربية © 2025


