Pici, gli antenati etruschi degli spaghetti dal nome avvolto nel mistero (Italia)
I rustici spaghi di pasta fresca erano e sono tutt’ora piatto tipico delle tavole di molte zone della provincia di Siena.
I condimenti quotidiani erano una spolverata di pecorino grattugiato (e, quando c’era, un giro d’olio extravergine d’oliva) oppure una salsa di cipolle o il sugo all’aglione o, ancora, il “sugo con le briciole” cioè con il pane raffermo grattugiato poi insaporito in padella con olio e aglio. Quelli dei giorni di festa vedevano aggiunto al pomodoro il rigatino oppure erano impreziositi da intingoli di funghi freschi trifolati, ricchi ragù d’agnello o di anatra, o sughi con uova di luccio.
In qualsiasi modo fossero cucinati i pici, rustici spaghi di pasta fresca, “lontani parenti degli spaghetti” secondo la definizione di Giovanni Righi Parenti nel volume “La cucina toscana in 800 ricette tradizionali”, erano e sono tutt’ora piatto tipico delle tavole di molte zone della provincia di Siena, in particolare Chiusi, Chianciano, Montalcino e Montepulciano, dove pare si producano i migliori.
E sono cibo familiare talmente antico, che anche il loro nome si perde in un tempo sconosciuto. Per quanto riguarda l’etimologia, infatti, ci sono diverse teorie. La prima, affascinante ma che sembra frutto di un volo pindarico più che idea avvalorata da prove, li farebbe addirittura risalire all’antica Roma, alla figura del mitico Apicio autore del “De Re Coquinaria” del primo secolo. Un’altra, lega l’origine del nome alla località di San Felice in Pincis, vicino Castelnuovo, dove pure sono tipici (“pinci” è un altro uso dialettale per indicarli). Mentre una terza ipotesi, certo più credibile, la riporta al verbo “appiccicare”, per il modo in cui sono tirati a mano.
Comunque, stando a un affresco nella “Tomba dei Leopardi” a Tarquinia, gli etruschi preparavano e mangiavano qualcosa di estremamente simile ai pici: vi è raffigurato, tra gli altri, un servo di tavola che tiene tra le mani una ciotola su cui si notano lunghi fili di pasta. Così, con buona pace della teoria di Marco Polo che avrebbe importato gli spaghetti dalla Cina, gli antenati del piatto nazionale potrebbero essere nati proprio in terra di Toscana.
Gli ingredienti non potrebbero essere più essenziali, acqua, farina di grano tenero e sale. Si procede impastando bene fino a ottenere una massa soda, poi se ne stacca una pallina per volta: da ogni pallina si crea un picio, che si ottiene tirando il “filo” tra il pollice e l’indice, nel gesto tipico di chi sta filando la lana.
E, proprio come filare la lana, anche tirare i pici era lavoro di bambini, anziani e donne che “appiccicavano a veglia” – come si legge in un altro libro di Righi Parenti “Il buon mangiare ovvero la cucina d’altri tempi”.
L’autore ci riporta col pensiero a quelle lunghe giornate di un tempo quando – in casa durante l’inverno o all’aperto sul ballatoio nella bella stagione – ci si ritrovava in gruppo e, tra una chiacchiera e un racconto, si univa l’utile al dilettevole, facendosi compagnia tra vicini di casa, lavorando ai pici, pietanza preferita, economica, gustosa, nutriente.
Per capire quanto radicati fossero i pici nella vita quotidiana, basti pensare a un vezzeggiativo usato a Siena, che adesso forse ricorderanno solo i nonni, che è “picio pane” per indicare un neonato, un bimbo paffutello, ossia la dolcezza personificata. O ancora un altro modo di dire locale, “appiciarsi”, col significato tenero, passionale e allo stesso tempo innocente, di fare l’amore. Ecco che un cibo influenza il lessico e fa parte della cultura popolare di una comunità.
Comunità che però – proprio sui nomi – a volte si divide. Si dice pici i pinci? Alcuni vi diranno che sono la stessa cosa, altri vi giureranno che si chiamano pinci solo a Montalcino, altri ancora vi spiegheranno che i pinci – con la “c” – sono dei pici il cui impasto è arricchito con uova. In realtà, si tratta di differenze dialettali difficili da spiegare. Allo stesso modo non c’è accordo sull’uso delle uova. Ognuno è libero, se crede, di ‘arricchire’ l’impasto con un paio di albumi e un tuorlo, ma la ricetta originale, che è poi la più povera, non le prevede.
Fonte: repubblica.it